Rettifica del genere sessuale: non necessaria la prova di un trattamento chirurgico
Uno Stato non può comunque invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio del diritto di rettifica

La rettifica dei dati relativi all’identità di genere non può essere subordinata alla prova di un trattamento chirurgico. Questo il principio fissato dai giudici comunitari (sentenza del 13 marzo 2025 della Corte di giustizia dell’Unione Europea), chiamati a prendere in esame il complesso caso di una persona di cittadinanza iraniana, che ha ottenuto lo status di rifugiato in Ungheria, invocando la sua transidentità e producendo certificati medici rilasciati da specialisti in psichiatria e ginecologia e attestanti un’identità di genere maschile, nonostante le caratteristiche femminili. A seguito del riconoscimento dello status di rifugiato su tale base, detta persona è stata tuttavia iscritta come donna nel registro dell’asilo, tenuto dall’autorità ungherese competente in materia di asilo e contenente i dati identificativi, compreso il genere, delle persone che hanno ottenuto tale status in Ungheria. Nel 2022, sulla base dei già esibiti certificati medici, la persona iraniana ha chiesto all’autorità ungherese di rettificare l’indicazione del suo genere in detto registro, ai sensi del regolamento generale sulla protezione dei dati. Tuttavia, tale domanda è stata respinta con la motivazione che la persona non aveva dimostrato di aver subito un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale. A fronte di tale vicenda, ai giudici comunitari sono stati posti due interrogativi: primo, il regolamento generale sulla protezione dei dati può imporre a un’autorità nazionale, incaricata della tenuta di un registro pubblico, di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti?; uno Stato può subordinare, mediante una prassi amministrativa, l’esercizio del diritto di rettifica di tali dati alla produzione di prove, in particolare, di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale? Per i giudici comunitari bisogna partire da un dato: la persona ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento, senza ingiustificato ritardo, la rettifica dei dati personali che la riguardano e sono inesatti. Ciò a fronte del diritto fondamentale secondo cui ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica. E, in tale ottica, il carattere esatto e completo di tali dati deve essere valutato alla luce della finalità per cui essi sono stati raccolti. Analizzando il caso specifico, secondo i giudici comunitario spetta al giudice nazionale verificare l’esattezza del dato, alla luce della finalità per cui esso è stato raccolto. Se la raccolta di tale dato aveva lo scopo di identificare la persona, detto dato sembrerebbe riguardare l’identità di genere vissuta da tale persona, e non quella che le sarebbe stata assegnata alla nascita. Di conseguenza, uno Stato non può invocare l’assenza, nel proprio diritto nazionale, di una procedura di riconoscimento giuridico della transidentità per ostacolare l’esercizio del diritto di rettifica. Infatti, sebbene il diritto dell’Unione Europea non pregiudichi la competenza degli Stati nel settore dello stato civile delle persone e del riconoscimento giuridico della loro identità di genere, tali Stati devono tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, rispettare il diritto dell’Unione Europea, compreso il regolamento generale per la protezione dei dati, regolamento che va interpretato nel senso che esso impone a un’autorità nazionale incaricata della tenuta di un registro pubblico di rettificare i dati personali relativi all’identità di genere di una persona fisica qualora tali dati non siano esatti. E, ai fini dell’esercizio del suo diritto di rettifica, tale persona può essere tenuta a fornire gli elementi di prova pertinenti e sufficienti che possono ragionevolmente essere richiesti per dimostrare l’inesattezza di detti dati. Tuttavia, uno Stato non può in alcun caso subordinare l’esercizio del diritto di rettifica alla presentazione di prove di un trattamento chirurgico di riassegnazione sessuale. Infatti, un siffatto requisito lede, in particolare, l’essenza del diritto all’integrità della persona e del diritto al rispetto della vita privata. Anche perché un siffatto requisito non è, in ogni caso, necessario né proporzionato al fine di garantire l’affidabilità e la coerenza di un registro pubblico, quale il registro dell’asilo, dal momento che un certificato medico, ivi compresa una precedente psicodiagnosi, può costituire un elemento di prova pertinente e sufficiente al riguardo.